Month: marzo 2015

Fuoritempo

Romanzo di morte, amore, seduzione, fuga, scoperta e resa. […]
Un po’ Lolita, un po’ Wilhelm Meister.   
La Repubblica

Così scriveva Giuseppe Leonelli nel 2007, all’uscita del mio secondo romanzo, Fuoritempo.

Ora, a distanza di qualche anno e giusto per smentire il proprio stesso titolo, Fuoritempo riemerge con lo stesso incantevole sguardo in copertina ma con un nuovo vestito elettronico, confezionato su misura da VandA.epublishing.

In altre parole, Fuoritempo è diventato ebook. E in quanto ebook è acquistabile, scaricabile e leggibile sui vostri trabiccoli con pochi affondi di mouse (il primo dei quali sulla copertina oppure qui) e la modica spesa di 4,99 euro, che come tutti possono vedere sono notevolmente meno di 5.

Davvero pochi, per scoprire quali possibili nessi possano esistere fra un’educazione teatrale e una ninfetta, non trovate?

Giusto per incuriosirvi e invogliarvi al gesto equo e solidale dell’acquisto, in esclusiva per voi e per gentile concessione di VandA, ecco i primi capitoli del romanzo:


 

1

Hunter Preda stava improvvisando.

La musica non era un problema. La musica badava a se stessa. Era ridiventata un piacere spontaneo da quando, quasi un anno prima, in seguito a una certa, serena mattina di settembre in cui la sua città ferita era sembrata chiedergli aiuto, Hunter aveva cancellato la registrazione del suo secondo disco per una delle grandi multinazionali e aveva deciso di riprendere a suonare.

Era stato più facile del previsto. Qualche telefonata, una serie di spiegazioni, una salva di insulti dall’altro capo del filo.

Un batterista in meno per la Scena, si era detto Hunter. Un musicista in più per la realtà, per angosciante che fosse. Era stufo del relativo, inutile sfarzo del jazz incravattato. Voleva semplicemente fare musica. Tornare in quel mondo sotterraneo di club e di jam che impregnava Downtown New York City, quella Downtown che giungeva quasi ad affacciarsi sulla voragine e che proprio per questo voleva far sentire la propria voce in modo ancora più chiaro e squillante del solito.

Nei mesi successivi, Hunter Preda aveva fatto ricorso alle sue origini italiane: con una sovrabbondanza di estroversione e doppi baci sulle guance, aveva rappezzato e rinnovato relazioni che in precedenza aveva messo colpevolmente nel dimenticatoio.

Addio scarpe inglesi, bentornati sandali.

E aveva funzionato. Aveva funzionato perché Hunter Preda percuoteva i suoi tamburi seguendo un ritmo interiore, e perché quel ritmo ormai spezzato e irregolare raccontava il mondo in cui si ritrovava a dover vivere. Perché nel vuoto apparente dello sgomento aveva ancora qualcosa da dire, e sapeva come dirlo.

E così Hunter ci aveva dato dentro. Aveva suonato, a volte meglio e altre peggio, ma sempre, e ovunque, aveva fatto musica. Le note generate in quelle serate erano parse semplificare la sua esistenza, riducendola a una scarna piattaforma di bisogni e doveri, il più importante dei quali era quello che aveva nei confronti di se stesso: il dovere di essere vero, di essere autentico, di – come dire? – tenersi a bacchetta.

Ma c’era un tranello, e questo tranello aveva un corpo e una mente. Quella che non aveva era una buona opinione nei riguardi di una vita di piaceri semplici, specialmente se questi escludevano in partenza qualsiasi possibilità di carriera.

Il tranello aveva anche un nome, una professione e un ruolo nel mondo. Si chiamava Clara Zhetkin, quasi come la dimenticata rivoluzionaria del secolo passato. Per liberarsi dello scherzo di dubbio gusto che le avevano giocato i suoi genitori, immigrati tedeschi, si faceva chiamare Chlora Z., sigla con la quale era nota in tutta Manhattan come un’artista di grande talento. Il suo talento, in realtà, consisteva principalmente nel negare i propri misteriosi dipinti a gran parte delle gallerie cittadine, creando in tal modo un’aura di inaccessibilità che lei stessa smentiva con l’ubiquità fisica della festaiola di razza. Tutto ciò non sembrava preoccupare il mondo dell’arte: un celebre critico era perfino arrivato a decretare che il suo vero capolavoro fosse la bellezza stessa del suo corpo.

A tutto ciò Hunter assisteva divertito. Clara era attraente, brillante e passionale, e se la Scena ci teneva a farsi abbindolare, che si accomodasse. Ma Clara aveva anche le idee ben chiare rispetto a quello che voleva dalla vita, e la colonna sonora a cui obbediva non era certo il free jazz. I suoi passi seguivano un ritmo più regolare, una sorta di metronomico due quarti che tendeva a escludere a priori l’improvvisazione.

E un giorno, inevitabilmente, Clara lo aveva lasciato. Si era autocancellata dalla vita di Hunter con l’abilità dell’esperta pittrice.

La prima reazione di Hunter non era stata quella che si sarebbe aspettato. Si era sorpreso a provare una sorta di rilassamento dei sensi, un abbandono. Vero, Clara l’aveva lasciato; ma in ciò non c’era nulla di drammatico. Era un fatto della vita, alla stessa stregua della propria rinuncia alle glorie del jazz paludato. Il superamento di una piacevole, ma a lungo andare dispersiva, deviazione di percorso. No, la cosa che più lo turbava era dover suonare un motivo a cui non era più abituato. Per tutta la sua vita adulta Hunter aveva sempre avuto accanto una presenza femminile, una voce con cui riempire i vuoti che la musica si lasciava dietro non appena si spegneva la sua eco. La convivenza era per lui una condizione naturale, come se il suo corpo non riuscisse a concepire l’idea di non urtare contro un proprio simile negli angusti spazi del suo tipico appartamento newyorkese.

Ora, all’improvviso, Hunter Preda doveva fare i conti con una realtà che col tempo gli era diventata praticamente ignota. Era come se si trovasse nel bel mezzo di un assolo, e a differenza del solito non aveva idea di dove questo l’avrebbe condotto.

2

A casa, a quanto pareva – quanto meno per il momento.

Dopo l’ultimo colpo sui piatti, l’applauso esausto del pubblico e il momento di silenzio che sembrava sempre seguire un concerto particolarmente intenso, Hunter percorse i quattro cadenti isolati che separavano il locale dal suo appartamento, un microscopico monolocale al quarto piano di una vecchia palazzina in Ludlow Street. In strada c’erano pochi superstiti, i veterani della Lower East Side, e Hunter ne conosceva la maggior parte: quell’angolo di New York City si era rivelato più simile di quanto avrebbe mai potuto credere alla sua idea di un antico villaggio italiano. Ma quella sera Hunter non era di umore particolarmente loquace.

Hunter Preda poteva anche non essere stato innamorato di Clara, ma di sicuro provava una sorta di privazione fisica, simile alla fastidiosa percezione di un arto fantasma. Clara era stata parte di lui, nel bene e nel male; ma le conseguenze della sua autocancellazione dovevano essere sperimentate in solitudine. Perché era da solo, Hunter lo sapeva, che un uomo reimparava l’alfabeto dei sentimenti, cominciando non con la “A”, come un alunno dell’asilo, ma con la “R” sfuggente del rispetto di sé. Lo stesso rispetto di sé che in quel momento lo faceva sorridere alla vista del suo stipatissimo appartamento, quattro mura prese d’assedio da una gran collezione di cose del passato: vecchi dischi, vecchi libri e riviste, pagine tratte da fonti disparate, scritte sulle pareti e altre superfici. Oggetti per l’anima, li considerava Hunter.

E in mezzo a tutto ciò, una segreteria telefonica. Che lampeggiava come una richiesta di soccorso.

Hunter stava per raggiungerla quando il suo piede lo tradì, scivolando su qualcosa di piatto in agguato sul pavimento. Riprese l’equilibrio, abbassò lo sguardo e vide il colpevole. Era la copertina di un vecchio lp ormai introvabile, Crisis, di Ornette Coleman.

Un brutto colpo per il rispetto di sé.

Hunter si sedette su una vecchia poltrona di pelle e premette il tasto “Play” della segreteria. Non sapeva cosa aspettarsi, in realtà non prevedeva niente di peggio di un messaggio di Clara a conferma del loro nuovo grado di separazione.

Ma Clara non aveva chiamato.

George l’aveva fatto: cosa pensava Hunter di un concerto venerdì sera all’Old Office insieme a lui e Bill?

Hunter pensava che fosse un’ottima idea.

Il custode del palazzo, Mr Herrera, era spiacente di informarlo che qualcosa nel suo bagno perdeva, e che aveva causato una chiazza scura sul soffitto del piano inferiore.

Hunter pensava che fosse spiacevole.

La voce ghiaiosa di Homey avrebbe gradito fare un paio di serate con la Big Band al Fad? Chiamare la direzione per conferma.

Hunter pensava che avrebbe gradito.

Poi una scarica di statica: qualcuno l’aveva chiamato da un cellulare e aveva deciso di lasciar parlare la strada al posto suo.

O qualcuna, pensò Hunter mentre il nome “Clara” gli zigzagava nel cervello.

Ancora statica. No, una voce. Una voce maschile, sconosciuta. O forse no: c’era qualcosa di familiare nella lenta inflessione della frase d’esordio…

«Aahh, pronto, Hunt. O almeno spero che sia tu…»

Certo che sono io, rispose silenziosamente Hunter. Chi sei tu, questo è il problema.

Aveva appena formulato la domanda quando la voce fornì una risposta, non senza una punta di indecisione. «Sono… sono Mark. Sono in strada, come forse potrai sentire…»

Mark. Il suo vecchio amico Mark Donner. Il suo compagno di college. Insieme a cui Hunter aveva spremuto le ultime gocce degli anni Settanta e aveva resistito per gran parte degli Ottanta.

«Mark?» disse Hunter.

In quel preciso istante il telefono emise un ronzio attutito. Hunter lo pescò da sotto un cuscino e rispose.

«Pronto?»

«Hunt?»

Di nuovo quella voce: Mark. E di nuovo la strada. Il clacson di un’auto, un coro di risposte meccaniche.

«Mark? Dove… come stai?»

«Non ti sento, Hunt… ci …ei? …onto?»

«Sì, ci sono. Ma cosa…»

Hunter non si era mai abituato allo speciale andirivieni delle conversazioni al cellulare; era straordinariamente attento al ritmo di tutto ciò che lo circondava, e nel flusso irregolare delle voci trasmesse via etere c’era qualcosa che ogni volta lo disorientava.

Mark. Quanti anni erano passati: dieci? No, di più. Quindici, per la precisione, come Hunter avrebbe dovuto ricordare molto bene.

«Devo… devo dirti una co… …ibile», balbettò Mark. All’improvviso la sua voce si era fatta roca e incrinata, e la crudele frattura delle ultime due parole non fece che accentuarne la cupezza. E in quell’istante la consapevolezza colpì Hunter come uno schianto di piatti.

Nan.

«Che è successo?» chiese in un filo di voce.

Mark non rispose subito. Hunter credette di poterlo vedere, fermo sul marciapiede, una mano a reggere il minuscolo apparecchio all’orecchio, l’altra a tormentarsi un taglio sulle labbra screpolate.

«Nan», disse finalmente Mark, e il nome risuonò come uno sparo nell’orecchio di Hunter. «Nan è morta.»

3

Il loro abbraccio non parlava soltanto di dolore. Raccontava anche qualcos’altro, qualcosa a cui Hunter, nella confusione e nel dolore, si sorprese ad aggrapparsi. Era la consapevolezza di quello che c’era stato fra loro, del “prima” e “dopo” della loro amicizia, intensificata da quindici anni di silenzio: una realtà concreta contro la quale, per un istante, le ondate di dolore parvero infrangersi e vaporizzarsi.

Ma fu soltanto un attimo.

Poi giunsero gli andirivieni per la stanza, le domande e risposte, il commercio di informazioni che gli individui trovano necessario quando la morte colpisce improvvisa. E alcune di quelle informazioni Hunter non avrebbe mai voluto conoscerle.

Mark aveva fatto ingresso nel suo appartamento e ne aveva a malapena varcato la soglia quando i due vecchi amici si erano ritrovati uno nelle braccia dell’altro. Dopo un minuto abbondante di silenzio, si staccarono all’unisono e si spostarono sul divano. Mark vi si sedette con fare indeciso, come se, pensò Hunter, si vergognasse delle proprie mancanze fisiche. Seguì un altro silenzio, e Hunter si ritrovò a rimpiangere il potere protettivo della musica. In quel momento moriva dalla voglia di udire il grido dolente di Albert Ayler.

«Com’è successo?» domandò. «Era… era malata o cosa?» Doveva chiederlo. Certe parti del loro passato comune non erano estranee al rischio del contagio.

Mark spostò lo sguardo sulla collezione di dischi dell’amico, come se anche lui rimpiangesse di non potervi fare affidamento. Poi rabbrividì. «No, non era malata. Non come potresti pensare.»

Non ci stavo pensando, fece per protestare Hunter, ma si trattenne. Ci aveva pensato, e non poteva negarlo.

«Ma sì, era malata», riprese Mark. «La conosci, Hunt. La conoscevi bene.»

Lo sguardo di Hunter era già abbastanza esplicito, ma le sue labbra lo dissero ugualmente. «Depressione.»

Mark annuì, poi fece un sospiro. «Si è uccisa.»

No, pensò Hunter. Gliel’avrebbe gridato in faccia, ma gli mancò la voce per farlo. «Come?» sussurrò.

Mark gli scoccò un’occhiata incuriosita. «Pillole», rispose. «Zoloft. Lo stesso cazzo di farmaco che avrebbe dovuto aiutarla», soggiunse in un vibrato rabbioso.

«In un mondo perfetto», disse Hunter, rammentando le utopistiche nottate che lui, Mark e Nan avevano trascorso a parlare, fumare e sognare per combattere la natura distopica dei loro tempi.

Mark gli rivolse un sorriso inaspettato che parve sfilacciarsi nell’istante stesso in cui sorgeva.

«Quando è successo?»

«Ieri sera. Ero al Franny’s, Steph era andata a dormire da un’amica, e…» La sua voce si smarrì nel silenzio.

«Non sapevo», sbottò Hunter con una punta di rimostranza nella voce. Nessuno mi aveva informato, diceva in realtà il suo tono. E perché mi hai chiamato adesso? Represse le domande deglutendo.

Ma Mark sembrava averle udite suo malgrado. Gli rivolse una strana occhiata, poi disse in tono sommesso: «Non lo so, tutt’a un tratto… stavo riflettendo sulle cose da fare, le persone da chiamare… e ho pensato a te.»

Il disagio di entrambi era evidente, e Hunter sentì di dover dire qualcosa. Scelse un’altra domanda stupida. «Ma perché?»

Mark spostò lo sguardo fuori dalla finestra, sui mattoni luridi dell’edificio di fronte. Sublime art rules, gridava un tag a caratteri cubitali rossi. Aggrottò la fronte.

«Mi chiedi perché», rispose. Percorse la stanza con un movimento circolare del braccio, un gesto lento e rispettoso. «Se c’è uno che potrebbe capirlo, sei tu.»

Ma Hunter non capiva. Era smarrito, troppo prostrato dalla sorpresa e dal dolore per collegare il gesto dell’amico a una qualsiasi forma di realtà.

«La sua musica», soggiunse Mark con un’occhiata implorante. Sembrava voler dire qualcos’altro, ma le parole gli si bloccarono in gola. Tossì.

Hunter lo guardò confuso. «La sua musica era magica

Era vero. Hunter non aveva mai smesso di seguirla a distanza. Nan e i suoi imprevedibili slalom fra regole e forme, la sua voce di madreperla, le sue delicate avventure nel regno della canzone e della melodia. In più di un’occasione aveva evitato a malapena di ritrovarsi sul palco insieme a lei. Il mondo dei club newyorkesi, per vitale che fosse, era anche incestuoso: era praticamente impossibile che due persone che volevano evitarsi riuscissero a farlo. Hunter ci era riuscito, ma ripensandoci non sapeva come. Sapeva perché, e ne era dispiaciuto.

Mark lo guardava con attenzione, nei suoi occhi un fantasma del senso di colpa di Hunter.

«Magica», ripeté. «Certo, per te. E per una decina di altre persone.»

Dunque è così, pensò Hunter. Un’altra vittima della logica di mercato. Lo sapeva ancora prima di dirlo, ma scelse di farlo ugualmente. «La sua etichetta l’aveva scaricata.» Non era una domanda.

«La sua etichetta l’aveva scaricata», gli fece eco Mark strofinandosi gli occhi. «E i locali… Sai quant’era difficile, quant’era… imprevedibile

Hunter lo sapeva eccome. Nan Drake, la bellissima Nan Drake dalla voce cristallina, era famosa tanto per la sua timidezza patologica quanto per la sua urticante autoironia. Ogni volta che portava sul palco il suo strano repertorio, quei due aspetti della sua personalità sembravano alimentarsi a vicenda. I risultati erano vertiginosi e variegati. Una sera poteva andare avanti a suonare per ore, sospesa in un refolo di intangibile leggerezza; la sera successiva era capace di interrompersi a metà canzone, a metà ritornello, ruotare sui tacchi e abbandonare il palcoscenico. Faceva parte della sua mistica. Ma non era una mistica per tutti, e ciò, a quanto pareva, era stata la sua rovina.

«E poi qualcuno, un cretino, un qualche stronzo in doppiopetto di L.A.», proseguì Mark, «ha cominciato a parlare di sfortuna.»

«Sfortuna?»

Annuì agitato. «Sì. Anzi no. La voce che ha cominciato a girare fra le case discografiche era che Nan menasse gramo. Che fosse, non so, pericoloso suonare con lei. Avere a che fare con lei.»

Hunter era incredulo. «Che menasse gramo», ripeté. Non ne aveva mai sentito parlare, ma non era questo che lo sconcertava. A differenza della scena live, l’industria discografica – la stessa da cui lui era recentemente fuggito – era organizzata come una serie di gabbie non comunicanti. Compartimentalizzata. No, ciò che lo lasciava senza parole era la pura e semplice crudeltà della cosa. La sua assoluta stupidità. Appiccicare un’etichetta simile a un’artista, a un’autrice fragile e a una cantante di preziose miniature sonore come Nan Drake, equivaleva a condannarla a un oblio forzato, equivaleva…

«L’hanno uccisa», disse Mark dando forma all’ultimo, insostenibile pensiero di Hunter. «Non ce la faceva più. Steph e io, noi le siamo stati sempre vicini, ma a quanto pare…» La voce gli si spezzò. «A quanto pare non siamo bastati.»

Eravate tutto per lei, avrebbe voluto dire Hunter. Lo sapeva perché conosceva Nan. Lo sapeva perché la ricordava. È che la musica è ciò che abbiamo dentro. E quando ce la tolgono, ci ritroviamo senza vita. L’atto concreto del suicidio, quello è un semplice gesto meccanico.

Hunter avrebbe voluto dire questo al suo vecchio amico, ma non lo fece. All’improvvisò provò un impulso più violento. Balzò in piedi, spaventando Mark; gli strinse la mano come se fosse un salvagente, scavalcò lo schienale del divano, si sporse fuori dalla finestra e vomitò.

4

Una breve storia dell’amicizia

Hunter e Mark si conoscono al liceo. Vengono entrambi da Brooklyn.

Parlano. Studiano. Fanno i bagordi. Fanno i romantici. Si istruiscono.

Poi incontrano Nan.

Lei viene da Purgatory, Maine. Una città testuale.

Vanno all’università tutti insieme.

Parlano. Studiano. Scopano. Litigano. Si incasinano.

Hunter e Nan. Nan e Mark. Hunter e Nan – di nuovo. Nan e Mark – di nuovo e per sempre.

Hunter prosegue i suoi studi al Berklee. Mark prosegue i suoi studi alla facoltà di economia. Nan prosegue per il Village.

Si scrivono. Si mancano. Si vedono a New York.

Hunter pesta sui tamburi. Nan scrive e canta. Mark apre Franny’s, una trattoria sulla West Side.

La musica di Hunter è un successo. Le canzoni di Nan sono un insuccesso di culto. Il ristorante è un successo di massa e raddoppia: Zooey’s, sulla East Side.

1986: Hunter e Nan si vedono dopo un concerto. Parlano. Ridono. Bevono. Fumano.

Scopano – di nuovo. Si incasinano – di nuovo.

Non si rivedono più.

Fanno di tutto per evitarsi.

Ce la fanno.

Passano quindici anni.

E ora Nan è morta.

5

Lo trovarono tutti commovente.

Era stata un’idea di Hunter: un set acustico di canzoni di Nan. Un memoriale, forse, anche se per lui era qualcosa di diverso: il loro primo concerto insieme, il loro primo e ultimo incontro musicale. In ritardo di una vita, pensò Hunter mordicchiando uno dei panini di Franny’s. Ma era il minimo che potesse fare, e così l’aveva fatto. Per se stesso, in realtà, più che per chiunque altro. Ed era stato bellissimo: il giovane trombettista l’aveva stupito con la sua lirica comprensione delle melodie in minore di Nan.

La bellezza è davvero cosa rara, si disse Hunter osservando i dolenti aggirarsi per lo spazioso salotto dell’appartamento. Fuori dalla finestra, il fiume arrancava sotto il sole biancastro di luglio mentre il New Jersey si stagliava in lontananza, più minaccia che promessa.

La cerimonia era stata breve, spezzata da singhiozzi incorporei che avevano attraversato la chiesetta come invisibili stelle filanti. Dopo, tutti si erano riversati a casa di Mark e Nan alla ricerca di una conclusione. E ora sembravano soddisfatti: mangiavano e si scambiavano sorrisi tristi come se nel profondo di loro stessi avessero trovato un luogo in cui relegare quella strana sensazione.

L’assenza di Nan.

Erano tutt’altro che numerosi: una ventina di persone, calcolò Hunter. Una cerchia di amici, si disse udendo le loro voci senza ascoltarle. Sufficiente, in teoria, a prevenire proprio ciò che era successo. Ma se gli anni gli avevano insegnato qualcosa, era che i cerchi tracciati dalla vita non erano mai perfetti. Non si chiudevano mai, e a causa di quei piccoli scarti diventavano più simili a spirali: avvolti su loro stessi e sempre indeterminati. E a volte le persone si smarrivano fra una voluta e l’altra.

«Magnifico», gli disse qualcuno – e non per la prima volta. Era il bello dei funerali: riducevano i discorsi di tutti al minimo indispensabile. Tragedia. Accettazione. Ricordo. Naturalmente, nessuno aveva detto nulla sul fatto che Nan si fosse tolta la vita. Sarebbero state necessarie troppe parole.

Hunter decise di avvalersi di un altro dei dubbi vantaggi di un funerale: il diritto di non rispondere. Si voltò lentamente, vide Mark intento a parlare con lo chef croato di Zooey’s (“un genio della fusione balcanica”, aveva inneggiato con una certa ingenuità una rivista cittadina) e si incamminò verso la porta che dava sul corridoio. Un nodo familiare stava cominciando a farsi sentire nel suo stomaco. Nel giro di pochi minuti, lo sapeva, si sarebbe ritrovato in bagno, intento a vomitare con entusiasmo il rinfresco. Era il suo modo di gestire il dolore, lo era sempre stato: come se il suo organismo, satollo di emozioni, rivendicasse i propri limiti rigettando tutto ciò che non considerava necessario. Cibo, bevande e tutto il resto: liberate l’area, fate spazio alla sofferenza.

Chino sul gabinetto, scosso dai brividi, Hunter era nel bel mezzo di un conato quando udì qualcosa. Una voce femminile, delicata e sfibrata, quasi stonata ma non proprio. Nan. If orange was the color of her dress, cantava, why then blue? Era il primo brano del suo secondo album, quello che le aveva procurato un fuggevole contratto con una delle grosse case discografiche.

Hunter rialzò la testa, deglutì e si sedette all’indietro sui talloni. Si mise all’ascolto, gli occhi velati di lacrime. La voce di Nan smise di cantare, le sue dita pizzicarono qualche nota sparsa su un banjo e poi, all’improvviso, la musica cedette il passo all’orribile stridore di una puntina sui solchi di un vecchio vinile.

Hunter trasalì. Udì un silenzio, meno di un secondo di esitazione, poi le prime note del secondo brano. E di nuovo, poco dopo la prima strofa cantata e una sorprendente scelta armonica del pianista, lo stridore/il rumore/il dolore.

In quel momento capì: chiunque stesse operando il giradischi, posava la puntina all’inizio di ogni brano per poi passare al successivo nel modo più violento. Il gesto, insistente come un rituale ossessivo, sembrava tradire un’intenzione più che un’emozione, un folle progetto più che una spontanea esplorazione.

Hunter si alzò e uscì dal bagno, seguendo il suono fino a una porta chiusa. La aprì e vide una stanza, tinta di un rosa-arancione dal sole al tramonto e stranamente sgombra. Una stanza semplice, si disse cercando la fonte della cacofonia (un’altra canzone, un altro stridore, un altro silenzio). Quando la trovò ne rimase perplesso, poiché la scena pareva sfidare la sua stessa percezione dello spazio che stava osservando. Di fronte a lui, seduta sul pavimento e circondata da cataste di lp, c’era una ragazzina. Un’adolescente. Una ragazzina adolescente in una stanza decisamente non adolescenziale.

I muscoli del suo braccio sottile gonfi di tensione, la ragazzina afferrò la testina del piatto e la mosse trasversalmente sul prezioso vinile, producendo ancora una volta quel suono lancinante. Giunta al solco d’inizio dell’ultimo brano, si fermò e risollevò la mano. Senza girarsi, si mise all’ascolto delle prime note della canzone, la schiena irrigidita dall’anticipazione.

Hunter si schiarì la gola e la ragazzina balzò in piedi e si voltò nello stesso movimento. Abbandonato a se stesso, il disco continuò a girare sul piatto, e la voce di Nan fuoriuscì senza impedimenti dalle casse acustiche.

«Cosa…? Chi..?», balbettò la ragazzina. Alla ricerca di segni rivelatori sul suo volto, Hunter non trovò traccia di lacrime. Tutto ciò che vide fu un’espressione contratta, che riduceva il viso a un grosso nodo. Ma la riconobbe lo stesso.

«Stephanie?», domandò.

«Steph», rispose lei. La decisione del suo tono era rassicurante, pensò Hunter: come se i due nomi fossero nemici che si fronteggiavano su un campo da battaglia e lei si fosse schierata con il preferito.

«Il tuo nome è Steph

La ragazzina abbassò gli occhi sul giradischi. «Il mio nome», rispose spaziando con cura le parole, «è Stephanie.»

«Lo dicevo», fece Hunter.

«E tu chi sei», fece lei. Lo pronunciò come un’affermazione. Lo so già, ma dimmelo lo stesso.

«Mi chiamo Hunter. Sono un amico dei tuoi.»

«Sei un amico di mio padre. Eri un amico di mia madre.»

La precisazione parve cancellare ogni suono dalla stanza, e Hunter ne approfittò per guardarla meglio. Era alta e magra, con capelli castani e occhi nocciola, di una graziosità a prima vista ordinaria. L’espressione distante dello sguardo smentiva l’intensità del tono di voce e la contrazione del volto sottile. Ma a un tratto, come se Hunter avesse detto qualcosa che le aveva fatto cambiare idea, le sue fattezze mutarono, rivelando una presenza inaspettata fra le sopracciglia, appena sopra il dorso del naso: un piccolo neo scuro perfettamente rotondo e piatto che sembrava dare una violenta mescolata ai suoi lineamenti e le donava un aspetto esotico e quasi inaccessibile.

«Hai ragione», disse finalmente Hunter, trovando curiosamente difficile distogliere lo sguardo da quel cerchio perfetto.

«Lo so», rispose Steph.

Un’austera giovane donna, si disse Hunter. «Cosa stavi facendo con…» Indicò i dischi come se gli sfuggisse la parola. I vinili dalle eleganti copertine erano, in realtà, una delle tante preziose stranezze di Nan Drake. In un’era in cui la fruizione musicale diventava sempre più compatta e ridotta a una serie di aride sigle, Nan aveva preteso che di ciascuno dei suoi album venisse stampata anche una tiratura limitata di 33 giri. Aveva anche scelto personalmente la materia prima, dicendo la sua sul peso e sulla qualità del vinile. Alla luce di quelle considerazioni, per un qualsiasi musicista ciò che stava facendo Stephanie corrispondeva più o meno alla scena dell’Esorcista in cui la piccola Regan aggiungeva un paio di tette grottesche alla statua della Vergine Maria.

«Lo stavo suonando», spiegò.

Non direi, pensò Hunter, ma si guardò bene dal dar voce alla risposta. «Capisco.»

Fu allora che lei lo sorprese davvero. «Come dovrebbero essere suonati», disse.

Hunter la guardò. Non c’era ancora traccia di lacrime. Ma cosa aveva voluto dire?

«Cosa vuoi…»

«Perché lei è morta», sbottò Stephanie.

«Ma la sua musica…»

«La sua musica l’ha uccisa.»

Hunter non sapeva cosa rispondere a quell’affermazione, così non lo fece. Con una certa timidezza tese la mano verso di lei, ma Stephanie indietreggiò con un balzo, calpestando le copertine degli album di sua madre. Vi abbassò gli occhi, poi trasse un respiro tremante.

Hunter si voltò e si incamminò verso la porta. L’aveva quasi varcata quando il primo singhiozzo lacerò l’aria alle sue spalle.

 

 

Il mio primo romanzo Fuor d’acqua, pubblicato da peQuod nel 2004 ma uscito ancora prima in inglese per i gloriosi tipi della City Lights Books di Lawrence Ferlinghetti, è ora disponibile in una scintillante versione ebook grazie a VandA.epublishing (per arrivarci basta cliccare sulla copertina).

Costa solo tre euro e novantanove (che sono quattro euro meno il classico centesimo che per gli uffici marketing fa la differenza), possiede pagine che non ingialliscono nel tempo ed è perfino possibile che in questi dieci anni non sia ingiallito nemmeno nel contenuto. 

C’è solo un modo per scoprirlo.

Paul Muldoon: da Immram

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Per la serie “maestri & ispirazioni”, che prometto sarà lunga e ricolma di chicche, rimando tutti a questo link sul sito The Poetry Archive.
Nella pagina linkata troverete un lungo estratto (nel lussureggiante inglese della versione originale) da Immram, grande poemetto noir di Paul Muldoon, nonché la gustosa lettura dello stesso estratto da parte del suo autore, accento irlandese e tutto. (Per chi invece volesse leggerlo in traduzione, Mondadori ha pubblicato nello Specchio il volume Poesie, magnificamente curato da Luca Guerneri).

Immram è un vertiginoso esempio dell’ars poetica di Muldoon, uno dei più mirabolanti, inventivi e sì, anche divertenti poeti degli ultimi decenni. Inscrivendosi a pieno titolo nella gloriosa tradizione del noir hard boiled, per la quale la chiarezza dell’intreccio è sempre secondaria rispetto alla visione di un universo di “ombre e nebbie” (il testo sacro, in questo senso, non appartiene tanto al classico binomio Hammett/Chandler quanto a Ross Macdonald con il suo immenso The Chill (Il delitto non invecchia in italiano), Immram ci precipita in un vortice in cui, poeticamente, il primo e più insondabile mistero è la lingua stessa. In questo senso la poesia di Muldoon, con il continuo slittamento del senso che le è proprio, si candida a interprete ideale della filosofia dell’inconoscibile tipica del noir. Come se ogni verso in quanto tale, con le sue arbitrarie cesure, impedisse una lettura univoca della realtà e ci ricordasse a ogni “a capo” che ogni indagine è di per se stessa vana, qualunque sia il suo oggetto.

Paul Muldoon: da Immram

Afrodite fra i bikers

Sulla Pacific Coast Highway, più o meno all’altezza del confine fra
le contee di Los Angeles e di Ventura, davanti a uno dei luoghi di surf
più amati dai corridori delle onde, la spiaggia detta County Line, si trova il Neptune’s Net, magica catapecchia di surfers e bikers che serve il peggior caffè della costa.

Suggestionato dalla visione epifanica di una bellissima surfista (sulle onde di un’altra spiaggia, ma mi si conceda la licenza poetica) mi sono dipinto la scena di una novella Afrodite che esce dalle acque e arriva in questo magnifico localaccio costiero. Sparsi fra i versi si ritroveranno riferimenti all’ilare Il Minotauro esce a fumarsi una sigaretta di Steven Sherrill, e ovviamente all’imprescindibile Big Wednesday di John Milius.


La colazione di Afrodite al Neptune’s Net

Sono pochi i testimoni nella rete di Nettuno

quando percorre di taglio l’ultima onda,

sfiorandone con le dita la parete verde

mentre l’altra mano, tesa all’infuori,

sembra imporre una pausa di attesa

alla vita che incrocia al di sotto, non vista;

pochi la vedono scivolare di lato, lustra

del suo stesso elemento, e in un solo gesto

abbracciare la lunga tavola di legno bucato

(è una kook boxHawaiian Hollow del ‘41,

rossa, pinna singola, due strisce avorio e arancione)

e sollevarla dalla schiuma che ricama County Line

come se il vecchio Tom Blake nel crearla avesse provato,

per ingraziarsi la cliente immortale che si aggirava

intenta fra cataste, banchi, pialle e vernici,

a forgiare il modello perfetto, capace di imporre

la sua sagoma sull’onda ma pronta a lasciare

all’acqua il proprio peso, docile sotto quello divino.

Non indossa il nero a proteggere le forme

della propria perfezione, tanto che nel momento

che l’occhio impiega a riconoscere realtà

in ciò che sembra immaginare la chiara nudità

della figura appare completa, e tanto più

numinosa quanto più esposta alle commosse

attenzioni dell’astro, agli arabeschi di pigmento

disegnati sul candore inumano della pelle,

alle fragili incrostazioni saline che tracciano

piccole repliche d’onde su una peluria

altrimenti invisibile, donandola all’occhio

abbagliato di chi non riesce a distoglierlo.

Avanza così verso la lingua sterrata davanti

alla veranda, la tavola ancora redolente di mare

lungo il fianco ondulato a clessidra dal capriccio

delle forme appena nate e rimaste nel tempo,

unità di misura dell’incanto che appartiene

da sempre a chi la vede arrivare, controluce.

Di fronte all’ingresso, accavezzate all’invisibile,

si pavoneggiano le creazioni biruote dei giganti

in pelle nera, irsuti di petto e ventre sfrenato,

le teste a prima vista rovesciate tanto è perfetta

la simmetria di assenza e abbondanza pilifera,

l’unisono rombo dei motori il loro saluto di rito;

nello spiazzo di lato alla cucina, insieme

ai cassonetti preda di quadrupedi notturni,

un’ombra così vasta e materica che potrebbe

far pensare al Minotauro soffia un refolo grigio

di Camel senza filtro verso la grazia bianca

in cammino, come a volerla carezzare con prensili

appendici di fumo: ma la brina continua a coprirla,

carezza insistita dei sargassi, e fa scivolare innocuo

tutto ciò che prova ad avvolgere stringere ghermire

colei che ora si offre di spalle, guizza le scapole

come creature nascoste sottopelle, si passa le dita

sui capelli accesi di rame e intagliando

un ultimo profilo indelebile nell’aria si lascia

inghiottire dal buio fragrante che le è noto,

e che ogni mattina la regala all’umano.

Visioni di Joanna

Un’altra poesia dal mio “Califia” (Jaca Book).
Se in questo caso la Musa ispiratrice è Joanna Newsom (nella foto con copricapo metamorfico) che canta In California (guardatela e ascoltatela per crederci), altri riferimenti non casuali sono Chinatown di Polanski, Pomona Queen del grande Kem Nunn e le ninfe acquatiche di Ovidio.


 

Sono più di quattrocento le miglia reali

misurate a corda d’arpa fra Nevada City,

l’innevata, e Pomona dove un tempo gli aranceti

si dissetavano alle acque sottratte ai laghi e alle foreste;

ma ascoltando le visioni di Joanna

mai riusciresti a immaginarle nate all’incrocio

fra Main Street e le rade traverse di Coyoteville

– penseresti di aver trovato in lei la vera ninfa

degli orti e dei giardini, nella sua voce piumata

il richiamo alle acque generose di bellezza.

Eppure è proprio qui che ha nuovo senso

il vecchio invito, come to California: qui dove la terra

sembrerebbe dover parlare di se stessa

sorge il canto di una lontananza, e ciò che resta

non è più soltanto solido, presente, ma è la discesa

di un corso alle cui rive puoi trovarti,

un giorno come un altro,

con ciò che nel tempo ha forgiato questo mondo,

che siano i gesti ossessivi di un orso lavatore,

gli aneliti di una cerva dalle forme bionde di ragazza,

la sete cieca di un barone della terra.

RepTv News, Ellroy: “Sono un cane arrabbiato affamato di successo” – Repubblica Tv – la Repubblica.it

James Ellroy in copertina del “Venerdì di Repubblica” è una gran bella cosa (il link rimanda invece al servizio su “RepTV News”).

L’articolo di Antonella Barina ci regala un ritratto di Ellroy a tutto tondo, visto in tutto il suo perfido (citazione voluta) splendore e folle, vertiginoso, latrante (chi l’ha conosciuto sa di cosa parlo) egocentrismo.

Da traduttore ellroyano della seconda ondata (dopo Carlo Oliva, Lidia Perria, Luciano Lorenzin, Marco Pensante e prima di Carlo Prosperi, Sergio Claudio Perroni e Giuseppe Costigliola… però, che bella squadra) voglio girare ad Alfredo Colitto, narratore e traduttore di questo “Perfidia” e della novella “Ricatto” (il suo sito è  http://alfredo-colitto.com/), la dedica che James mi fece sulla mia traduzione di “Sei pezzi da mille”: Sublime art rules!

RepTv News, Ellroy: “Sono un cane arrabbiato affamato di successo” – Repubblica Tv – la Repubblica.it