Exilience on “Ovunque Siamo”

Fin da quando, pischello poco più che ventenne nell’eccitante, sanguigna, feroce New York dei primi anni Ottanta, mi facevo le ossa scrivendo per il “Progresso Italo-Americano”, giù sullo scivolo del tempo fino alla mia ormai decennale storia d’amore con la California, la mia vita è stata un lungo ponte tra Italia e America.
E come succede con tutti i ponti, ideali e non, a volte ci si ritrova a metà strada senza sapere bene se proseguire o tornare indietro…
Ora la splendida rivista online Ovunque Siamo, dedicata alle scritture italo-americane, ha pubblicato la mia sequenza poetica #Exilience, dove fin dal titolo cerco, forse trovandolo, forse no, un punto di contatto tra esilio mentale e resilienza…

The meritorious literary journal Ovunque Siamo – New Italian-American Writing is the beautiful home of my poetry sequence #Exilience, a sort of chronicle in verse of my constant state of displacement (caught as I am between Italy and America) and at the same time an attempt to draw a line between resilience and mental exile…
Thank you!

 

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A Very New York Happenstance

It was a strange, unsettling time in New York, touched by loss and bafflement and a strange feeling of “what are we doing here?”.
Then, one windy evening…

Senza titolo

Poem [We came on the right day!]

                                                                               To S.

It was just one of those things:
only a day before we could not stop
wondering at the foreign beauty of the dogwood
— it was but a dry run for the real discovery,
the only-in-New-York happenstance
of a life that gradually permeates your own with surprise
over the course of a two-course meal
that could have spent itself in so many ways
with indifferent politeness and yet did not:
a sudden chill as if death had breathed on us
(as it had:
a shudder deep, internal)
a wistful goodbye to the gentle cover
of the ginkgo-biloba, a few hesitant steps inside
— and there she was, welcoming with grace
and gray-eyed translucence, a ready smile,
a deep tolerance for my deep-seated intolerances,
curiosity in her questions, a luminous aura.
Really, Mr O’Hara: where does the evil of the year go
when friendship takes New York
— no ozone stalagmites on the last days of May,
but your “deposits of light” are still here,
held in my memory caveau,
with a jar of lukewarm coffee that later,
deep in the white noise of words and daily life,
she shyly placed on the red leather settee
and that from now on will always taste of serendipity.

Contains excerpts and quotes from “Poem [Khrushchev is coming on the right day!]”
by Frank O’Hara

 

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Erano giorni strani, inquietanti a New York, segnati dal dolore e dallo sconcerto e da una strana sensazione di spaesamento.
Finché una sera di vento…

 

Poesia [Siamo venuti il giorno giusto!]

A S.

 

È stata una di quelle cose:
solo il giorno prima ci stupivamo
di fronte alla bellezza esotica della sanguinella
— ma non era che una prova della vera scoperta,
la casualità solo newyorkese
di una vita che permea gradualmente la tua di sorpresa
tra una portata e l’altra di una cena
che avrebbe potuto esaurirsi in molti modi
nell’apatica cortesia dell’occasione e invece non l’ha fatto:
un gelo improvviso come se la morte
ci avesse fatto sentire il suo fiato sul collo
(e così era stato:
un brivido cupo, interiore)
un malinconico addio al dolce riparo
del ginkgo-biloba, qualche passo esitante all’interno
— e lei era lì, ad accogliere con grazia
e trasparenza di occhi grigi, il sorriso pronto,
una profonda tolleranza per le mie radicate intolleranze,
curiosità nei suoi quesiti, un’aura luminosa.
Davvero, Mr. O’Hara: dove va il male dell’anno
quando l’amicizia s’impadronisce di New York
— niente stalagmiti di ozono a fine maggio,
ma i tuoi “depositi di luce” sono ancora qui,
chiusi nel mio caveau di ricordi
insieme a un vasetto di caffè tiepido che poi,
nel rumore bianco di parole e vita quotidiana,
lei timida ha posato sul divano in pelle rossa
e che d’ora in avanti saprà sempre di serendipità.

Contiene brani e citazioni da “Poesia [Krusciov viene il giorno giusto!]”
di Frank O’Hara

 

CALIFORNIA BURNING: AN EXORCISM

171206065901-31-california-fire-1205-exlarge-169California is burning again, this time a little too close to home for comfort, and what is one to do, if not try a feeble, possibly inane exorcism in poetry?

The scars of this earth that runs to sea are alight,
and now the questions seem to be more scorching
than the flames: having to do with the whys,
the hows, the whens, the wherefores.

But maybe all this makes little or no sense
to the firemen who fly over the burning expanse
and glimpse the shadowy outline of their wings
gingerly skimming this black-magic carpet

as if afraid of burning themselves;
maybe this cyclic curse of stubble and coal
that the earth inherits is part and condition

of its own returning, the day after;
and the ashes give cover to the quiet dreams
of a land that westers but never surrenders.


CALIFORNIA BURNING: UN ESORCISMO

La California brucia di nuovo, questa volta pericolosamente vicino a casa, e cosa può fare l’autore a pezzi se non offrire un fragile, forse vacuo esorcismo?
Questa la versione italiana:

Bruciano le ferite della terra che conducono al mare,
e le domande sembrano farsi più brucianti
delle fiamme: riguardano i perché,
i come, i quando e i percome.

Ma forse tutto questo ha poco senso
per chi sorvola la distesa di fuoco
scorgendo in basso l’ombra delle ali
che scorre leggera su questo tappeto di magia nera

quasi avesse paura di scottarsi;
forse questa ciclica sciagura di stoppie e carbone
che la terra eredita è parte, condizione

del suo ripresentarsi, il giorno dopo;
forse le ceneri coprono i quieti sogni
di una terra che tramonta ma non si arrende mai.

TRADURRE, FORSE SOGNARE…

Era il 2015 quando l’editore Frassinelli mi coinvolse nell’illuminato progetto di pubblicare in Italia un autore americano da noi pressoché sconosciuto di nome Don Carpenter, Carpenterche in patria, grazie agli sforzi e all’intelligenza critica di Jonathan Lethem, stava mietendo un bel successo postumo. Carpenter infatti, nato all’inizio degli anni Trenta a Berkeley, era morto suicida nel 1995, lasciando dietro di sé una nutrita serie di romanzi di solida e ispirata fattura. L’idea, a cui aderii subito con entusiasmo, era quella di proporre Carpenter come uno di quei “maestri nascosti” che l’America ci ha ormai abituati a (ri)scoprire con una certa regolarità: John Williams, Richard Yates, Chuck Kinder, James Salter sono i nomi più recenti che vengono in mente.
A questi autori Carpenter non ha nulla da invidiare: coevo della Beat Generation, amico personale di alcuni dei suoi maggiori esponenti, il nostro non ne aveva mai condiviso le dispersività un po’ velleitarie, preferendo puntare su solide trame, su personaggi intagliati in tutte le loro bellezze & brutture (tanto per concedermi un vezzo Beat), sulla cara, vecchia ricostruzione di ambienti, vezzi, more sociali e via classicheggiando. Il tutto, però, adattato a un’era, quella che va dagli anni Cinquanta agli Ottanta, dove il mondo, e gli USA soprattutto, mutavano a velocità vertiginosa, portando sulla scena nuovi linguaggi, nuovi costumi e nuove ossessioni (sex, drugs & rock’n’roll!).
Il mio (i nostro) lavoro su Carpenter partì con il suo ultimo libro, “I venerdì da Enrico’s”, lasciato incompleto dall’autore ed editato e “ripulito” dallo stesso Lethem: una magnifica storia, toccante, drammatica ma in certi momenti anche spassosa (com’è la vita stessa), di scrittori di vario successo e talento. Il secondo, gigantesco passo è stato la “Hollywood Trilogy”, tre romanzi ambientati a Hollywood (che Carpenter conosceva bene), da me tradotti uno dopo l’altro in una magica full immersion in quella Tana del Bianconiglio che è sempre stata Hollywood. E per dirla con un altro mito personale, i lisergici Grateful Dead: what a long, strange trip it’s been.
Chi mi conosce sa (e gli altri tanto vale che lo scoprano adesso) quanto, per motivi sia biografici che generazionali, la California torreggi nel mio immaginario; facile dipingersi, dunque, il miscuglio di gioia e trepidazione che provai nel cimentarmi con un romanzo come La Sceneggiatura, il terzo e più corposo capitolo della trilogia, dove nelle prime due righe già comparivano le parole magiche “Mulholland” e “Laurel Canyon”.
Ora “La Sceneggiatura” (titolo originale “Turnaround”) esce come primo volume singolo della trilogia (ma i completisti non temano, gli altri sono già in programma), ed è per me una rinnovata gioia presentarvi, come potrei fare con un trio di amici, i suoi principali protagonisti: il giovane, illuso sceneggiatore Jerry Rexford, il produttore di successo (ma anche no) Alexander “Boss” Hellstrom e il capriccioso, strafatto auteur Rick Heidelberg. Intorno a loro si muovono però decine di magnifici comprimari, tra cui qualche personaggio (anche importante) proveniente dagli altri due libri, a formare un quadro psichedelico e folle, ma sempre magnificamente raccontato da un autore con i piedi ben saldi per terra, della Hollywood degli anni Settanta, quella degli Easy Riders e dei Raging Bulls (dal fondamentale saggio di Peter Biskind): una Hollywood che aveva sì perduto la dimensione di grande Fabbrica dei Sogni della sua età classica, quel magico paradosso che riusciva a far convivere la dittatura dei Grandi Produttori e le visioni dei registi e sceneggiatori al loro servizio (quattro nomi su tutti: Billy Wilder, Howard Hawks, Preston Sturges, John Ford), ma che al suo posto, in un regime di pullulante anarchia, dava spazio a spiriti liberi e selvaggi come i Peckinpah, i Coppola, i Polanski, gli Altman e compagnia filmante.
“La Sceneggiatura” assume quindi, per il suo modesto traduttore milanese, le dimensioni del Mito, della Proiezione (a vari livelli): e se a questo si aggiunge che la vicenda narrata ruota intorno a un adattamento/remake de La signora nel lago di Chandler…
In poche parole: che cosa si può chiedere di più a un lavoro?
E per voi fortunati che incontrate questo libro per la prima volta: che cosa si può chiedere di più a una lettura?

Billy & Coyote è vivo e lotta insieme a noi

cover

Ci siamo!
Dopo innumerevoli peripezie editoriali è in uscita il mio nuovo romanzo, “Billy & Coyote”, grazie alla visionaria lungimiranza (nota anche come benemerita incoscienza) delle Edizioni Effigi.
“Di che si tratta?” si chiederanno coloro che non ho già ammorbato con le mie antipazioni su queste stesse pagine (mi rivolgo a entrambi).
Presto detto: B&C è la storia dell’incontro tra Billy Wilder, mio maestro e nume ispiratore, e il trickster Coyote, la divinità indiana della trasgressione e del travestimento, avvenuto nella Hollywood degli anni Trenta.
L’incontro mi si è rivelato in un sogno sciamanico causato dalla concomitanza tra la 178ma visione di “Frutto proibito” e un’indigestione di fave di cioccolato extrafondente, quindi ha tutti i crismi dell’autenticità storica.
È un libro in cui le note, di probabile origine tricksteriana, sono importanti (e irriverenti) quanto la storia.
È una commedia romantica per gli innamorati del cinema vero.
È stato prodotto da Netflix (questo non è vero, ma fa tanto cool.)
Quello che è vero è che lo potete già acquistare, con un lauto sconto del 15%, sul sito dell’editore (qui), prossimamente su Amazon e da gennaio in libreria.
Che aspettate, dunque? Come direbbe BW: Uno, due, tre!

PLANTIGRADO REDUX

18297222_1703806679757946_537292431_oIl 3 maggio 2017 (ma climaticamente poteva anche essere il 3 novembre) i Chiostri dell’Umanitaria di Milano hanno visto l’uscita del Plantigrado dalle pagine di Califia e I labili confini e la sua calata tra il pubblico, che ha reagito con scarso spavento e buona tolleranza alla lettura integrale dei due poemetti.
Tenendo fede al suo nome, l’autore a pezzi ve ne regala qui alcuni brani, in cui lui stesso, tra accendini Zippo, Panama, fiaschette da whiskey piene di sciroppo per la tosse (causa maltempo), microfoni testardi, musiche noir e maschere di cartone, cerca di dare vita, gesti e parole a un personaggio che spera lo accompagnerà a lungo.
Buona multipla visione.

 

 

“I LABILI CONFINI” alla prova del pubblico

 

 

E così è passata anche questa Giornata della Poesia, un po’ pretestuosa come tutte le Giornate con l’iniziale maiuscola, ma in fondo una bella occasione per “far arrivare” la poesia alla gente. Noi (la formazione in campo, a parte l’autore a pezzi nonché autore del libro presentato, era completata da Andrea Cati, editore, ideatore e istigatore di Interno Poesia, e Duska Kovacevic, poetessa e fine lettrice di origini e dolci accenti balcanici) abbiamo voluto far parlare la poesia, piuttosto che parlarne.
La serata si è svolta alla Libreria Feltrinelli di Via Manzoni a Milano, che ringraziamo ancora, e il pubblico ha mostrato di gradire. Forse ha mentito spudoratamente, ma l’impressione non era quella. Qui, per gli assenti, i ritardatari, i distratti e i workaholics, una piccola playlist video dei momenti poeticamente salienti…

 

 

 

#StefanoBortolussi #ILabiliConfini

Una bellissima recensione de “I labili confini” a opera di Carlo Tosetti su Poetarum Silva. Oggi l’autore a pezzi si è leggermente ricomposto…

Poetarum Silva

Stefano Bortolussi, I labili confini, Interno Poesia, 2016

recensione di Carlo Tosetti

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Stefano Bortolussi, I labili confiniStefano Bortolussi, scrittore, poeta e traduttore, dopo Califia (Jaca Book 2014), ritorna nell’amata terra di California (Califia è il nome dato alla California da Cortés) con I labili confini (Interno Poesia Editore, 2016).
Il libro è diviso in due sezioni: la prima, La scelta del plantigrado (un noir in versi) è un atipico poema in ottave, nel quale il protagonista – detective – accetta l’incarico di ritrovare una ragazza scomparsa, tale Gazelle.
La seconda sezione, Di altri spiriti guida, è composta da sei poesie, che trattano di sei animali “in odor di sciamanesimo” (la Velella Velella è una colonia di idrozoi della famiglia Porpitidae), mantenendo l’intero libro immerso nell’atmosfera del culto dei nativi, scintilla e linfa anche al susseguirsi degli eventi narrati nella prima parte.

Lungi da me smentire lo stesso autore, ma la sottotitolazione…

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Featured Poetry: Against Naming by Julia Kolchinsky Dasbach

jkd-head-shot-color-photo-cred-ekaterina-izmestieva-3Dal sito letterario New South, della Georgia State University, un’altra splendida poesia di Julia Kolchinsky Dasbach, questa volta in originale, con una breve ma affascinante intervista con una delle nuove voci più belle della poesia americana.
E a proposito di voci: cliccando sul solito triangolo Play, potete sentire Julia stessa che legge i suoi versi.

Sorgente: Featured Poetry: Against Naming by Julia Kolchinsky Dasbach

Amato cinema

Movie Marquee For

Passati gli Oscar e  gabbato come sempre il Cinema maiuscolo, mi permetto di rimandare con l’immagine a un capolavoro di quelli veri (leggi: un film che si finge lieve ma che dice molto più di quello che racconta) e di tradurre una bella poesia di Kate Northrop, poetessa americana nata nel ’69, sulla magia dell’ingresso in sala, dello spegnimento progressivo delle luci, dell’accensione altrettanto dolce della visione e della passione mentre fuori gli elementi procedono indifferenti a svolgere il loro cosmico mandato.
Una doverosa precisazione: non conoscendo l’autrice e le sue intenzioni, mi sono concesso in traduzione una libertà che appartiene a ogni lettore di poesia: quella di traslare il dettato del verso (in specifico, il genere di quei due “Lovely One” e di quel singolo, commosso “Loveliest”), riconducendolo per mano alla mia esperienza e ai miei afflati. In realtà (anche se non è detto), nella poesia l’autrice potrebbe rivolgersi a un “lui” e non a una “lei”, come invece fa nella mia versione. I miei sparsi lettori si sentano quindi liberi di riportare il tutto ai propri sentimentali trasporti, che è poi uno dei segreti del leggere poesia.

kate-northrop

Kate Northrop

The Film

Come, let’s go in.
The ticket-taker
has shyly grinned
and it’s almost time,
Lovely One.
Let’s go in.

The wind tonight’s too wild.
The sky too deep,
too thin. Already it’s time.
The lights have dimmed.
Come, Loveliest.
Let’s go in

and know these bodies
we do not have to own, passing
quietly as dreams, as snow.
Already leaves are falling
and music begins.
Lovely One,

it’s time.
Let’s go in.

© 2007 Kate Northrop

Il film

Vieni, entriamo.
La maschera
ha fatto un timido sorriso
ed è quasi ora,
Amata Mia.
Entriamo.

Il vento stasera è troppo furioso.
Il cielo troppo scuro,
troppo rado. È già ora.
Le luci si sono affievolite.
Vieni, Amatissima.
Entriamo

e incontriamo questi corpi
che non dobbiamo possedere, che passano
silenziosi come sogni, come neve.
Già cadono le foglie
e la musica comincia.
Amata Mia,

è ora.
Entriamo.