Month: dicembre 2017

CALIFORNIA BURNING: AN EXORCISM

171206065901-31-california-fire-1205-exlarge-169California is burning again, this time a little too close to home for comfort, and what is one to do, if not try a feeble, possibly inane exorcism in poetry?

The scars of this earth that runs to sea are alight,
and now the questions seem to be more scorching
than the flames: having to do with the whys,
the hows, the whens, the wherefores.

But maybe all this makes little or no sense
to the firemen who fly over the burning expanse
and glimpse the shadowy outline of their wings
gingerly skimming this black-magic carpet

as if afraid of burning themselves;
maybe this cyclic curse of stubble and coal
that the earth inherits is part and condition

of its own returning, the day after;
and the ashes give cover to the quiet dreams
of a land that westers but never surrenders.


CALIFORNIA BURNING: UN ESORCISMO

La California brucia di nuovo, questa volta pericolosamente vicino a casa, e cosa può fare l’autore a pezzi se non offrire un fragile, forse vacuo esorcismo?
Questa la versione italiana:

Bruciano le ferite della terra che conducono al mare,
e le domande sembrano farsi più brucianti
delle fiamme: riguardano i perché,
i come, i quando e i percome.

Ma forse tutto questo ha poco senso
per chi sorvola la distesa di fuoco
scorgendo in basso l’ombra delle ali
che scorre leggera su questo tappeto di magia nera

quasi avesse paura di scottarsi;
forse questa ciclica sciagura di stoppie e carbone
che la terra eredita è parte, condizione

del suo ripresentarsi, il giorno dopo;
forse le ceneri coprono i quieti sogni
di una terra che tramonta ma non si arrende mai.

TRADURRE, FORSE SOGNARE…

Era il 2015 quando l’editore Frassinelli mi coinvolse nell’illuminato progetto di pubblicare in Italia un autore americano da noi pressoché sconosciuto di nome Don Carpenter, Carpenterche in patria, grazie agli sforzi e all’intelligenza critica di Jonathan Lethem, stava mietendo un bel successo postumo. Carpenter infatti, nato all’inizio degli anni Trenta a Berkeley, era morto suicida nel 1995, lasciando dietro di sé una nutrita serie di romanzi di solida e ispirata fattura. L’idea, a cui aderii subito con entusiasmo, era quella di proporre Carpenter come uno di quei “maestri nascosti” che l’America ci ha ormai abituati a (ri)scoprire con una certa regolarità: John Williams, Richard Yates, Chuck Kinder, James Salter sono i nomi più recenti che vengono in mente.
A questi autori Carpenter non ha nulla da invidiare: coevo della Beat Generation, amico personale di alcuni dei suoi maggiori esponenti, il nostro non ne aveva mai condiviso le dispersività un po’ velleitarie, preferendo puntare su solide trame, su personaggi intagliati in tutte le loro bellezze & brutture (tanto per concedermi un vezzo Beat), sulla cara, vecchia ricostruzione di ambienti, vezzi, more sociali e via classicheggiando. Il tutto, però, adattato a un’era, quella che va dagli anni Cinquanta agli Ottanta, dove il mondo, e gli USA soprattutto, mutavano a velocità vertiginosa, portando sulla scena nuovi linguaggi, nuovi costumi e nuove ossessioni (sex, drugs & rock’n’roll!).
Il mio (i nostro) lavoro su Carpenter partì con il suo ultimo libro, “I venerdì da Enrico’s”, lasciato incompleto dall’autore ed editato e “ripulito” dallo stesso Lethem: una magnifica storia, toccante, drammatica ma in certi momenti anche spassosa (com’è la vita stessa), di scrittori di vario successo e talento. Il secondo, gigantesco passo è stato la “Hollywood Trilogy”, tre romanzi ambientati a Hollywood (che Carpenter conosceva bene), da me tradotti uno dopo l’altro in una magica full immersion in quella Tana del Bianconiglio che è sempre stata Hollywood. E per dirla con un altro mito personale, i lisergici Grateful Dead: what a long, strange trip it’s been.
Chi mi conosce sa (e gli altri tanto vale che lo scoprano adesso) quanto, per motivi sia biografici che generazionali, la California torreggi nel mio immaginario; facile dipingersi, dunque, il miscuglio di gioia e trepidazione che provai nel cimentarmi con un romanzo come La Sceneggiatura, il terzo e più corposo capitolo della trilogia, dove nelle prime due righe già comparivano le parole magiche “Mulholland” e “Laurel Canyon”.
Ora “La Sceneggiatura” (titolo originale “Turnaround”) esce come primo volume singolo della trilogia (ma i completisti non temano, gli altri sono già in programma), ed è per me una rinnovata gioia presentarvi, come potrei fare con un trio di amici, i suoi principali protagonisti: il giovane, illuso sceneggiatore Jerry Rexford, il produttore di successo (ma anche no) Alexander “Boss” Hellstrom e il capriccioso, strafatto auteur Rick Heidelberg. Intorno a loro si muovono però decine di magnifici comprimari, tra cui qualche personaggio (anche importante) proveniente dagli altri due libri, a formare un quadro psichedelico e folle, ma sempre magnificamente raccontato da un autore con i piedi ben saldi per terra, della Hollywood degli anni Settanta, quella degli Easy Riders e dei Raging Bulls (dal fondamentale saggio di Peter Biskind): una Hollywood che aveva sì perduto la dimensione di grande Fabbrica dei Sogni della sua età classica, quel magico paradosso che riusciva a far convivere la dittatura dei Grandi Produttori e le visioni dei registi e sceneggiatori al loro servizio (quattro nomi su tutti: Billy Wilder, Howard Hawks, Preston Sturges, John Ford), ma che al suo posto, in un regime di pullulante anarchia, dava spazio a spiriti liberi e selvaggi come i Peckinpah, i Coppola, i Polanski, gli Altman e compagnia filmante.
“La Sceneggiatura” assume quindi, per il suo modesto traduttore milanese, le dimensioni del Mito, della Proiezione (a vari livelli): e se a questo si aggiunge che la vicenda narrata ruota intorno a un adattamento/remake de La signora nel lago di Chandler…
In poche parole: che cosa si può chiedere di più a un lavoro?
E per voi fortunati che incontrate questo libro per la prima volta: che cosa si può chiedere di più a una lettura?