Month: luglio 2016

Un’epica, intima America

resizeCi eravamo lasciati parlando di indiani d’America e della carica poetica e obliqua del bisonte, e un lietissimo evento mi dà la possibilità di tornare sull’argomento senza correre il rischio di ammorbare i miei lettori: è finalmente uscita l’ultima, splendida raccolta poetica dell’amica Patrizia Villani, intitolata (come già annunciato) Sulle tracce dell’America ed edita da Moretti & Vitali.
Più o meno un anno fa, pubblicando su queste stesse pagine il mio poemetto L’ultima preghiera di Aparicio sulle tracce del coguaro e il “controcanto” di Patrizia, Sogno e preghiera di Presencia, raccontavo la storia di come Califia fosse nato da un lavoro poetico cominciato anni prima come una sorta di “call and response” tra me e Patrizia (questo è il link che rimanda curiosi e completisti a quell’articolo).
E qui mi tolgo la paradossale soddisfazione di citare me stesso, contando sul fatto che la hybris insita in un simile gesto sia giustificata, e in parte mitigata, dall’intenzione di segnalare e omaggiare il gran lavoro poetico di una collega e amica: “L’idea iniziale” scriveva l’autore a pezzi, “era quella di compiere un percorso parallelo sulle tracce dell’America, spinti e motivati da una comunanza tanto culturale quanto biografica. Poi, come accade spesso in viaggio e in poesia, le nostre strade (di scrittura, non certo di amicizia) si divisero, portando alla nascita di due raccolte separate.”

Villani-1

Bene: dopo Califia, ora tocca a Sulle tracce dell’America. E spetta ai versi narranti, epici e al tempo stesso intimi di Patrizia Villani farci viaggiare in un sogno e in un mito che sono sì comuni a tutti, ma che da un lontano che è in fondo, wendersianamente, “così vicino” ciascuno di noi può guardare, discernere, scomporre e ricomporre secondo le proprie sensibilità umane, culturali, psicologiche.
E così la visione di Patrizia Villani del nativo d’America, com’è espressa nel magnifico poemetto Epopea indiana, si alimenta tanto di storia quanto di riflessione, tanto di epica quanto di elegia, tanto di rabbia quanto di rimpianto. Ho scelto di pubblicare, per offrire un assaggio di questa raccolta di versi che sferzano come i venti delle praterie e ronzano come i cavi tesi dei grandi ponti newyorkesi, il secondo “canto” del poemetto, dove in una trentina di versi l’autrice riesce a far vivere e respirare lo spirito della tribù, il coraggio crudele del guerriero, la nobiltà della caccia al sacro bisonte (appunto) e il semplice, struggente ritmo della terra e dei giorni — un ritmo purtroppo destinato a perdersi nel silenzio.

E a proposito di silenzio… con questa magnifica poesia l’autore a pezzi si ritira per l’estate a occidente di se stesso, e in un soprassalto di memoria scolastica rimanda tutti a settembre.
Ci vediamo lì.


Patrizia Villani
Epopea indiana
(da Sulle tracce dell’America, Moretti & Vitali, 2016)

“It does not require many words
to speak the truth.”
Rolling Thunder, Nez Percé

2.

La tribù è la vita, nata dallo spirito
della terra madre, soffio indelebile
inciso nel cuore e nel cervello
con il sacro coltello affilato,
immagini che in noi respirano
dall’inizio del creato, linguaggio
degli antenati le ali della volontà
e gli artigli del coraggio, sapienza
di visioni primordiali in albe lattiginose
o nella notte nera che porta spiriti
animali e totem per la nostra identità
e la redenzione, unica guida
per navigare il fiume profondo e scuro
verso il solo estuario che conosceremo.

Sentiamo il confine come un brivido
immergendoci nel vento luminoso
che accarezza l’erba e profuma le stagioni
prima della pittura sulle facce e i corpi
con il rosso del sangue da versare,
tributo giallo e bruno della madre terra
verde e nero ombra della foresta densa,
prima di montare sui destrieri dipinti
e nell’azzurro immenso e fluttuante del cielo
impugnare la lancia, pronti l’arco e le frecce
cavalcare a caccia del bisonte sacro, e forse
una morte onorevole per i lupi solitari
del mondo nuovo, qui nelle grandi pianure
dove nessuno sopravvive alla tribù.

 

 

 

 

 

 

 

 

Bisontiade

bison_main

Mi è sempre piaciuto, il bisonte americano, con quel suo corpo assurdo che sfida le leggi di grazia e geometria e quel suo testone barbuto e capelluto da santone un po’ strafatto. L’ho sempre trovato un animale poetico, simbolo tragico di una sconfitta – quella dei nativi che lo cacciavano e se ne nutrivano – di cui è stato, non certo per colpa sua, una delle cause. Ha rischiato l’estinzione per calcolo umano e imperialistico, questo bestione buono che fino all’arrivo dell’Uomo Bianco era padrone delle praterie, e ora vive, come il popolo che per secoli aveva sfamato, un’esistenza ridotta al minimo e umiliata dal ricordo genetico delle libertà di un tempo.
La visione di un piccolo branco in cattività, nel Golden Gate Park di San Francisco, mi ha ispirato questa poesia di Califia, un verso della quale – l’unico in inglese – cita letteralmente una frase che un guerriero Crow disse al generale Crook per giustificare lo sterminio sistematico delle mandrie. Ai tempi (si parla del 1876) i Crow, così come gli Shoshone, avevano formato una di quelle malaugurate alleanze con le giubbe blu allo scopo di sbaragliare i loro nemici storici, i Sioux – laddove si dimostra che non tutti i nativi americani erano guerrieri nobili e senza paura, e che i cretini esistevano anche tra loro.
Ahimè, il piano alla lunga funzionò, pur nel suo semplicistico massimalismo, e la scomparsa del bisonte fu una delle maggiori iatture che colpirono le tribù cacciatrici, insieme al vaiolo (per gentile concessione delle coperte infettate distribuite dall’uomo bianco) e al trasferimento forzato in zone totalmente aliene alle abitudini e all’organizzazione sociale delle comunità originarie.
Storia triste, e conseguente senso di colpa galoppante nel bianco europeo, che queste cose le ha lette sui libri senza viverle sulla sua pelle e che quindi, in teoria, dovrebbe esimersi dal dire la sua. Ma – secondo ahimè – alla poesia non si comanda, e men che meno alla coscienza dell’autore a pezzi, che quando c’è da sentirsi a pezzi per qualcosa o qualcuno non si tira indietro.
Di qui la poesia che sbuffa e galoppa poche righe più in basso, portando in sé, oltre a una memoria storica che che è, come dire, indotta, anche una memoria generazionale più modesta (non certo per qualità, tengo a dirlo): quella di uno dei capolavori del Principe, al secolo Francesco de Gregori, che in Bufalo Bill riassume mirabilmente, in un paio di versi, decenni di storia americana: Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi/la locomotiva ha la strada segnata/il bufalo può scartare di lato e cadere. (E sento già le vocette intubate delle obiezioni e dei distinguo: Ma è poesia? E se non lo è, che cos’è? Risposta: E chissenefrega?)

 


 

Se venite in pace: quanta storia nascondono
due semplici lettere in sequenza, sembra dire lo sguardo
scuro e rassegnato del bisonte esposto alle visite innocenti
nella colpa di chi vede soltanto un bestione sbilanciato
e un muso barbuto da innocuo saggio a pagamento,
di chi dimentica che il bisonte può scartare
e cadere, e che la sua sorte fu decisa
non da chi lo cacciava con rispetto
scoccando la freccia nel momento,
ma dalle lunghe canne dei fucili, dalle mitraglie,
dalle gragnole di proiettili e intenzioni.

“Better kill the buffalo than have him feed the Sioux”
­– meglio per chi? mi chiede il capobranco avvicinandosi alla rete
del Golden Gate Park, e alle sue spalle il ponte
sembra prendersi gioco, nelle sue promesse tinte
dell’arancio dell’alba e del tramonto, delle nostalgie
di genti strane e coraggiose a cavallo
che ci avrebbero nobilmente scotennati
per poi dedicarsi a Fratello Bisonte.
Ma non è il brivido di uno stato di natura
che mi specchia nel suo occhio d’acqua triste:
è un tremito di gelo che mi prende
al pensiero delle cariche dei Custer contro i branchi,
delle coperte piegate in quattro a celare i germi del vaiolo,
dell’inganno nei gesti e nei trattati, nei calumet fumati
– delle lente, barcollanti colonne dell’esilio.