Ci eravamo lasciati parlando di indiani d’America e della carica poetica e obliqua del bisonte, e un lietissimo evento mi dà la possibilità di tornare sull’argomento senza correre il rischio di ammorbare i miei lettori: è finalmente uscita l’ultima, splendida raccolta poetica dell’amica Patrizia Villani, intitolata (come già annunciato) Sulle tracce dell’America ed edita da Moretti & Vitali.
Più o meno un anno fa, pubblicando su queste stesse pagine il mio poemetto L’ultima preghiera di Aparicio sulle tracce del coguaro e il “controcanto” di Patrizia, Sogno e preghiera di Presencia, raccontavo la storia di come Califia fosse nato da un lavoro poetico cominciato anni prima come una sorta di “call and response” tra me e Patrizia (questo è il link che rimanda curiosi e completisti a quell’articolo).
E qui mi tolgo la paradossale soddisfazione di citare me stesso, contando sul fatto che la hybris insita in un simile gesto sia giustificata, e in parte mitigata, dall’intenzione di segnalare e omaggiare il gran lavoro poetico di una collega e amica: “L’idea iniziale” scriveva l’autore a pezzi, “era quella di compiere un percorso parallelo sulle tracce dell’America, spinti e motivati da una comunanza tanto culturale quanto biografica. Poi, come accade spesso in viaggio e in poesia, le nostre strade (di scrittura, non certo di amicizia) si divisero, portando alla nascita di due raccolte separate.”
Bene: dopo Califia, ora tocca a Sulle tracce dell’America. E spetta ai versi narranti, epici e al tempo stesso intimi di Patrizia Villani farci viaggiare in un sogno e in un mito che sono sì comuni a tutti, ma che da un lontano che è in fondo, wendersianamente, “così vicino” ciascuno di noi può guardare, discernere, scomporre e ricomporre secondo le proprie sensibilità umane, culturali, psicologiche.
E così la visione di Patrizia Villani del nativo d’America, com’è espressa nel magnifico poemetto Epopea indiana, si alimenta tanto di storia quanto di riflessione, tanto di epica quanto di elegia, tanto di rabbia quanto di rimpianto. Ho scelto di pubblicare, per offrire un assaggio di questa raccolta di versi che sferzano come i venti delle praterie e ronzano come i cavi tesi dei grandi ponti newyorkesi, il secondo “canto” del poemetto, dove in una trentina di versi l’autrice riesce a far vivere e respirare lo spirito della tribù, il coraggio crudele del guerriero, la nobiltà della caccia al sacro bisonte (appunto) e il semplice, struggente ritmo della terra e dei giorni — un ritmo purtroppo destinato a perdersi nel silenzio.
E a proposito di silenzio… con questa magnifica poesia l’autore a pezzi si ritira per l’estate a occidente di se stesso, e in un soprassalto di memoria scolastica rimanda tutti a settembre.
Ci vediamo lì.
Patrizia Villani
Epopea indiana
(da Sulle tracce dell’America, Moretti & Vitali, 2016)
“It does not require many words
to speak the truth.”
Rolling Thunder, Nez Percé
2.
La tribù è la vita, nata dallo spirito
della terra madre, soffio indelebile
inciso nel cuore e nel cervello
con il sacro coltello affilato,
immagini che in noi respirano
dall’inizio del creato, linguaggio
degli antenati le ali della volontà
e gli artigli del coraggio, sapienza
di visioni primordiali in albe lattiginose
o nella notte nera che porta spiriti
animali e totem per la nostra identità
e la redenzione, unica guida
per navigare il fiume profondo e scuro
verso il solo estuario che conosceremo.
Sentiamo il confine come un brivido
immergendoci nel vento luminoso
che accarezza l’erba e profuma le stagioni
prima della pittura sulle facce e i corpi
con il rosso del sangue da versare,
tributo giallo e bruno della madre terra
verde e nero ombra della foresta densa,
prima di montare sui destrieri dipinti
e nell’azzurro immenso e fluttuante del cielo
impugnare la lancia, pronti l’arco e le frecce
cavalcare a caccia del bisonte sacro, e forse
una morte onorevole per i lupi solitari
del mondo nuovo, qui nelle grandi pianure
dove nessuno sopravvive alla tribù.