Sempre patologicamente sintonizzato sui temi dell’espatrio e dell’io scisso, quell'”esiliato in sé” che è l’autore a pezzi è solito aggirarsi in quell’universo fantastico che è il mondo della poesia in rete, dove a ogni inane emissione di versi (proprio nel senso di “suoni inarticolati”, non di “unità strutturale di un componimento poetico”) corrisponde una delizia uguale e contraria, in cerca di gioielli preziosi da leggere, godere e magari, per gentile concessione dei loro autori, tradurre e riproporre, possibilmente senza ridurli a patacche prive di valore, ai selezionati lettori di queste pagine.
È stato proprio nel corso di una di queste deambulazioni virtuali che sono incappato, nel magnifico web magazine americano Narrative, in una poesia e in una poetessa che mi hanno molto colpito.
Julia Kolchinsky Dalbach, che ringrazio pubblicamente per avermi gentilmente concesso questa intrusione poetica (vedi sopra) e di cui segnalo (sui web magazine Split Lip e Hermeneutic Chaos Journal) tre altre belle poesie nell’originale inglese e con il valore aggiunto della sua lettura leggermente rauca e seducente, è una giovane rifugiata ebrea arrivata negli Stati Uniti nel 1993 da Dnepropetrovsk, Ucraina (che nome!).
Non sta a me cercare di “introdurre” i suoi versi, situati alla giusta distanza tra confessione e illuminazione visionaria; basti dire che sembrano permeati da quel sottile velo di sofferenza sospesa, quasi trattenuta, quasi imbarazzata, che accomuna tutti gli esiliati, combattuti tra ricordo, rimorso e incredula gioia.
Buona lettura – e grazie, Julia, per questi e gli altri tuoi versi.
Family Portrait as a Collection of Bones
My dog collects bones, buries them
in couch cushions as though in
the earth, returning to find them
whole and uneaten by worms.
My husband collects bruises, counts
how many rise above the skin, how wide
the purpling icebergs spread. He collects
bass strings, forms them into hanging loops,
bronzing nooses. My father collects
words, reading everything and hiding
sunflower seeds in his pockets
so he can chew and smile without having
to speak. He collects centuries and kingdoms
in a cyberworld where he is warrior and lord
and matters. My mother, she collects
collecting, keeps my room a mausoleum, missing
only the body. Grandfather collects replicas
of himself: a chess player, a head of hair,
a lesson of how to clean the countertop
with baking soda and a steady hand.
Grandmother collects children
and grandchildren, buries their worry deep
inside her chest as though it were
the earth. She tells me not to look
for bones, that collection amounts
to very little and the man who collected
millions of light bulbs
still died
in a museum of glass, outlived
by his assembled light.
Ritratto di famiglia come collezione di ossa
Il mio cane colleziona ossi, li seppellisce
nei cuscini del divano come se
ve li sotterrasse, per poi tornare e trovarli
interi e non consumati dai vermi.
Mio marito fa collezione di lividi, tiene il conto
di quelli che gonfiano la pelle, di quanto
si espandono gli iceberg violacei. Colleziona
corde di basso, vi forma nodi scorsoi,
cappi bronzati. Mio padre colleziona
parole, leggendo di tutto e nascondendosi
in tasca semi di girasole
da sgranocchiare senza dover
parlare. Fa collezione di secoli e regni
in un cybermondo dove lui è guerriero e signore
e conta qualcosa. Mia madre, lei colleziona
l’accumulo, conserva la mia stanza come un mausoleo
in cui manca solo il corpo. Il nonno colleziona repliche
di sé: uno scacchista, una testa capelluta,
una lezione su come pulire il banco
con bicarbonato e mano ferma.
La nonna fa collezione di figli
e nipoti, ne seppellisce le ansie
nel petto come se ve le sotterrasse.
Mi dice di non cercare
le ossa, dice che accumulare significa
ben poco e che l’uomo che collezionò
milioni di lampadine
morì lo stesso
in un museo di vetro, lasciando
la sua raccolta di luce.